Secondo appuntamento con la rubrica “inCantina intervista”: stavolta l’ospite è Lorenzo Costantini, proprietario dell’Azienda “Villa Simone” (Monte Porzio Catone, RM)
Questo nuovo appuntamento con la neonata rubrica “inCantina intervista” ha come protagonista uno dei più importanti enologi del Lazio, figura rinomata anche nell’intero panorama nazionale, proprietario dell’azienda agricola “Villa Simone” di Monte Porzio Catone (nel cuore della denominazione Frascati e dell’areale dei Castelli Romani) e facente parte di una storica famiglia di enotecari e vitivinicoltori: Lorenzo Costantini.
Lo abbiamo contattato per farci raccontare, attraverso questa intervista, qualcosa sulla sua storia e sulla sua attività, cogliendo l’occasione per provare a fare in sua compagnia alcune riflessioni sulla situazione enologica ed enoturistica del Lazio.
Buona lettura.
Salutiamo Lorenzo Costantini e lo ringraziamo per averci dedicato un po’ del suo tempo per questa intervista.
Partiamo dall’inizio, se non le dispiace: per quei pochi che non la conoscono, come presenterebbe se stesso e il suo lavoro?
Un appassionato di vite e di vino diventato enologo.
Qual è la strada che ha percorso per arrivare dove si trova adesso? Da dove è partito, che esperienze ha fatto, che obiettivo aveva quanto tutto è iniziato e che obiettivo ha invece oggi?
La storia aimè è lunga e cercherò di sintetizzare. Nelle estati dal 1982 al 1984 mio zio, tutte le mattine, mi portava nell’azienda (Villa Simone; N.d.R.), appena acquistata a Monte Porzio Catone (RM), principalmente per lavorare in vigneto. E’ vero che praticamente sono nato dentro un enoteca ma durante quelle vacanze estive ho capito dove volevo andare; quindi, finite le scuole medie, mi sono iscritto all’Istituto Agrario Garibaldi di Roma; lì ho frequentato i primi tre anni ma capii che non mi sarebbe bastato, quindi decisi di completare gli studi all’Istituto Agrario Cerletti di Conegliano (TV) diventando enotecnico (proprio lo stesso anno in cui nacque la distinzione tra enologo ed enotecnico); lo stesso anno mi iscrissi al neonato corso di laurea in viticoltura ed Enologia con sede a San Michele all’Adige (TN). Un’esperienza fantastica perché mi mise a contatto con personaggi incredibili (per il mondo del vino) quali, per citarne alcuni: Attilio Scienza, Mattivi, Versini, Nicolini… praticamente i padri della viticoltura e dell’enologia moderna. Durante il periodo di studio feci tante esperienze vendemmiali ma due in particolare mi sono rimaste impresse: la prima in California (dove capii che la volontà di fare un vino può far superare tutte le difficoltà che possono presentarsi nel farlo) e la seconda a “Castello della Sala” (dove capii che se vuoi produrre un vino “top” devi investire, investire, investire e mai accontentarti).
Finita l’università (e il servizio militare) iniziai la professione, sempre dando una mano a “Villa Simone” e ad altre cantine del Lazio. Mi sentivo comunque non all’altezza e spinto da mio zio cercai di fare nuove esperienze: feci la domanda per fare il responsabile dei vigneti in un’azienda in Maremma e invece mi ritrovai a fare l’enologo in Friuli Venezia Giulia presso “Tenuta Ca’ Bolani” (un’azienda di 550 ettari di vigneto, la terza più grande d’Italia); era il 1999, un anno incredibile in primo perché nacque Sara (la mia primogenita) e in secondo perché un azienda simile, per chi ama questo mestiere, rappresenta il massimo dell’esperienza: tante varietà, tante tipologie e tante fasce qualitative.
Nel 2000 ci fu una piccola rivoluzione all’interno di “Ca’ Bolani”: il proprietario, Gianni Zonin, decise che bisognava cambiare, ringiovanire, mi scelse come direttore (il perché chiedetelo a lui, io rimasi pietrificato) e così rimasi in Friuli fino al 2005. In quegli anni sono diventato papà di Giulia e sono cresciuto di personalità, esperienza, coscienza e consapevolezza.
Nel 2006 mio zio mi spinse a tornare e io mi convinsi dalla certezza che se era possibile fare eccellenza in Friuli, con quei terroir, figuriamoci nel Lazio. Il ritorno fu traumatico, sia nella vita che nel lavoro: a “Villa Simone” avevo poco spazio e iniziai quindi a fare il consulente per altre aziende.
Negli ultimi anni, oltre a essere diventato proprietario di “Villa Simone”, ho superato le venti consulenze e diciamo che i sogni da bambino sono esauriti.
Oggi l’obbiettivo è far capire la qualità dei vini della mia regione…
E’ una storia ricca di esperienze diverse, di determinazione, soddisfazioni e, soprattutto, tanta passione… complimenti.
Riferendomi alla sua ultima frase, anche se l’argomento sarà (ri)affrontato nelle successive domande, qual è la strategia che ha seguito, e intende seguire, per raggiungere quell’obiettivo?
In maniera semplice, facendo assaggiare i vini e portando la gente a toccare per mano le nostre realtà.
Quando si cita “Costantini” è inevitabile pensare alla storica enoteca di Piazza Cavour a Roma. Ma la storia della sua famiglia è anche e soprattutto legata fortemente alla vitivinicoltura. Le andrebbe di raccontarci qualcosa in merito?
La storia della mia famiglia è di vitivinicoltori, a casa ho ancora una botte del nonno di mio nonno. Siamo marchigiani, esattamente di Penna San Giovanni (provincia di Macerata; N.d.R.) patria del Rosso Piceno. Purtroppo mio nonno è venuto a mancare da giovanissimo e nell’immediato dopo guerra la povertà costrinse mio padre e mio zio a venire a lavorare a Roma. Fecero diversi lavori ma appena ci fu la possibilità aprirono un loro negozio di “vini e oli”; poi arrivarono le enoteche, prima quella a Via Domenico Tardini poi quella a Piazza Cavour, lo stesso anno in cui sono nato io… era il 1971.
Mio zio, appena possibile, riprese a produrre vino e la prima grande soddisfazione arrivò con il Rosso Piceno “La Torraccia” del 1968, inserito nel “Catalogo Bolaffi – I migliori cento vini del mondo” a penna di Luigi Veronelli (la madre di tutte le guide).
Nei primi anni novanta mio zio diede in affitto l’azienda nelle Marche per concentrarsi su Villa Simone.
C’è da dire una cosa: le enoteche hanno permesso alla mia famiglia di visitare il mondo del vino e degustare migliaia di bottiglie, un bagaglio culturale inestimabile per chi produce.
Si sente sempre più spesso parlare di vino, viticoltura e/o enologia di qualità; concetti che vengono sottolineati come se la qualità fosse un optional, da scegliere o meno in base alle proprie possibilità, anziché un punto di partenza imprescindibile quanto sottointeso (come invece dovrebbe essere).
Qual è il suo concetto di qualità, al di là degli arcinoti fattori come “riduzione delle rese”, “vendemmia manuale”, “selezione dei grappoli”, “controllo delle temperature”, “pulizia in cantina”, ecc.?
La qualità è dare piacere/emozionare il tuo consumatore. Spesso si confondono i termini ma la qualità è un obbiettivo non è uno stereotipo, i mezzi che usi per raggiungerla non sono la qualità stessa.
Un’altra espressione che va molto di moda nell’ultimo periodo è “vini che rappresentano/raccontano il territorio”. In che modo, secondo lei, si deve operare (in vigna, in cantina, in post-produzione…) affinché una bottiglia sia davvero espressione del territorio dal quale nasce? E come si fa, secondo lei, a veicolare questo concetto fino al consumatore meno esperto ma pur sempre amante del vino?
La risposta tecnica è che se si rispettano certi parametri produttivi si possono poi ritrovare nel bicchiere alcune sensazioni estremamente legate al terreno e al clima di provenienza; diversamente, quando si va oltre, queste sensazioni si perdono, nonostante magari il vino sia eccellente.
Veicolare questo concetto al consumatore finale? Difficile e pochi ci provano (veramente): ci vuole una cultura e una conoscenza immensa di un territorio per poterne carpire l’essenza. Per chi volesse approfondire consiglio di leggere Jacky Rigaux.
A proposito di territorio, lei crede e ha sempre fermamente creduto nelle grandi potenzialità enologiche e vitivinicole dell’aerea dei Castelli Romani. Ci potrebbe spiegare, cortesemente, in cosa consiste questo potenziale e come si manifesta nel prodotto finale?
La potenzialità di un territorio sta nella fatica che devi infondere per raggiungere il tuo obbiettivo. La vocazione ce l’hai o non ce l’hai: se non c’è non significa che non riuscirai a fare un ottimo vino ma che dovrai faticare (e molto) per riuscirci.
Come trovare queste zone? Semplice, tutte quelle dove si produce vino da oltre mille anni. Noi ci troviamo in una di queste ma purtroppo la vocazione favorevole a volte ti si rivolta contro. Immaginate in Friuli produrre 200 quintali per ettaro, sarebbe difficile chiamarlo vino; da noi invece era possibile… e per quell’epoca ci facevano tanto di ola.
Ormai da anni (nel Lazio; N.d.R.) siamo tornati a produrre nei dogmi di esaltazione del territorio e il risultato è incredibilmente difficile da spiegare oltre alla banalità della definizione “Vulcanico”. Il solo territorio del Frascati presenta almeno quattro macroaree climatiche e un numero sconsiderata di terreni vulcanici (mix tra lava, tufo grigio, tufo rosso, lapilli, pomici, ceneri solo per citare i più importanti) e ognuno “inprinta” il vino in modo diverso. Andando oltre le varietà, un’attenta degustazione esalta queste caratteristiche (assaggiando annate vecchie è più facile) e a quel punto si apre un mondo. In realtà quando si assaggia un Frascati bisognerebbe dotarsi di una piantina topografica.
Mi sono dilungato… va tanto di moda il concetto di mineralità ecco nel Frascati ce né a volontà.
Il tema appena accennato, sulle diversità del clima e della composizione dei suoli all’interno dell’areale della denominazione Frascati, è molto interessante. Ci sarebbero, secondo lei, i presupposti per iniziare a pensare a uno studio di zonazione, di quelli tanto cari al Prof. Attilio Scienza (da lei citato precedentemente), finalizzato all’individuazione di Menzioni Geografiche Aggiuntive da aggiungere in etichetta, oppure a oggi non sussistono ancora i presupposti per un discorso del genere (magari, forse, bisognerebbe prima metter mano al disciplinare di produzione, andando un po’ a “stringere certe maglie”)? Nel caso, da chi dovrebbero partire la proposta e l’eventuale progetto?
La zonazione ai fini produttivi non avrebbe senso, troppo piccolo l’areale e troppe zone diverse. Il professor Scienza sicuramente sarebbe il più adatto (già sa di cosa si tratta) e il più qualificato.
La zonazione avrebbe senso più che altro ai fini divulgativi e di marketing.
Il Frascati, secondo il mio modesto parere, deve puntare nel lunghissimo periodo sulla Malvasia del Lazio come varietà di riferimento: 30 anni, forse più, ci vogliono per avere un biotipo sano e prima di quella data bisogna far sopravvivere il territorio; quindi, come fece il Chianti inizialmente, bisogna “allargare le maglie”.
Protagonista della denominazione “Frascati”, e di molte altre tra quelle regionali, è la Malvasia del Lazio (o “Puntinata”) e sappiamo quanto lei abbia a cuore questo vitigno. Ce lo potrebbe “raccontare”, spiegandoci caratteristiche e punti di forza?
E’ una varietà ecclettica che si presta a essere vinificata dalla base per spumante al passito. E’ indigena, quindi perfettamente adattata al nostro territorio, e dà prodotti eleganti e longevi. Agronomicamente è più impegnativa nella gestione a verde e produce poco (per questo è stata abbandonata in passato). Inoltre soffre le annate aride.
Per la qualità sarebbe tra le varietà più reimpiantate nella nostra regione; purtroppo, oltre a non avere cloni, sono disponibili solo barbatelle virosate. A tal proposito c’è un grande lavoro di risanamento portato avanti da ARSIAL (Agenzia Regionale per lo Sviluppo e l’Innovazione dell’Agricoltura del Lazio; N.d.R.) e CREA (Consiglio per la Ricerca in agricoltura e l’analisi dell’Economia Agraria; N.d.R.) e si spera che le prossime generazioni possano disporre a pieno godimento di questa splendida varietà.
Dal momento che non sono un agronomo, e potrei quindi aver frainteso, mi dica cortesemente se ho capito bene: attualmente, le viti di “Malvasia del Lazio” che sono in produzione non stanno rendendo al massimo delle potenzialità (per semplificare) poiché le barbatelle dalle quale hanno avuto origine erano affette da virosi, così come lo sono tutte quelle disponibili in commercio? Che tipo di problemi hanno e, una volta risolti, quali sono i margini di miglioramento in vigna e in cantina?
Esatto. Oggi le barbatelle in commercio sono sicuramente virosate. Questi virus si manifestano con il tempo riducendo drasticamente la vita di un vigneto (per rifare un vigneto oggi ci vogliono almeno 40000 €). A livello qualitativo le piante producono sempre di meno e i grappoli maturano diversamente rispetto a una pianta senza sintomi (malata ma asintomatica); quindi in cantina arriva uva eterogenea che non è il top. Risolto il problema la Malvasia del Lazio ritornerà alla grande e a quel punto si potrà dare una vera svolta alla zona.
I vini del Lazio stentano (per usare un eufemismo) a trovare spazi degni di nota nelle carte dei vini dei ristoranti, negli scaffali delle enoteche, nei calici dei wine bar e nell’informazione di settore (intesa nell’accezione più ampia del termine). La causa solitamente si attribuisce alla poco lusinghevole nomea figlia di lunghi decenni di produzioni di grandissima quantità e scarsa qualità, tipica della vecchia tradizione.
Eppure da oltre vent’anni moltissimi produttori hanno dato un’importante svolta qualitativa alla propria attività in vigna e cantina e i risultati sono evidenti. Ciononostante la considerazione a livello nazionale (ma anche, triste dirlo, locale) che si ha dei prodotti enologici laziali è più o meno sempre la stessa.
Cosa si sta sbagliando, secondo lei? In che modo si può invertire questa tendenza? Perché altre regione partite più o meno allo stesso livello del Lazio (Abruzzo, per esempio, ma anche Campania, Umbria, ecc.) hanno ottenuto, già da tempo, risultati diversi, importanti?
Primo: i produttori non devono accontentarsi perché si può migliorare ancora.
Secondo: ormai l’etichetta ce l’abbiamo, è uno stereotipo, per le nuove generazioni di appassionati del vino sarà più facile affrancarsene. Per uscirne subito bisognerebbe essere oggettivi e fare outing (difficile se per anni scrivi che il Lazio fa schifo).
Ovviamente non chiedo i nomi, ci mancherebbe, ma qual è la categoria che dovrebbe fare outing e quale sarebbe il modo migliore per farlo?
Principalmente sono tra giornalisti e sommelier (di varie estrazioni).
Altra nota dolente è quella relativa alla promozione del “Territorio Lazio”. Grazie all’esperienza da enoturista prima, e all’attività svolta con il nostro portale inCantina poi, ho potuto constatare e apprezzare di persona come la maggior parte delle regioni italiane siano oggetto di un’opera di promozione, più o meno importante, da parte dei relativi Consorzi di tutela, Enti Locali, Strade del Vino e Associazioni di categoria varie. Perché, secondo lei, nella nostra regione ciò accade assai di rado (ammesso che accada) e sicuramente in maniera molto poco determinata/determinante?
Sono i produttori che fanno promozione. I consorzi, gli enti, le amministrazioni pubbliche si attaccano al carro del vincente, magari prendendosi i meriti. Siamo ancora pochi ma cresciamo esponenzialmente e presto avremmo la forza di far partire il carro…
Concludo il trittico di domande “antipatiche” con quella che, forse, tratta l’argomento che più mi sta a cuore: sulla base della sua esperienza, quali potrebbero essere i motivi per i quali nella nostra regione è così difficile trovare produttori predisposti a “fare gruppo”, a remare tutti nella stessa direzione, a organizzare eventi di comune accordo e a ragionare da “squadra” in ottica di valorizzazione del territorio e dei relativi prodotti (vini), investendo così in un’attività che a medio termine porta sicuramente frutti e risultati utili per tutti?
Come già detto, il gruppo si sta formando. Ci vuole un po’ di tempo per trovare l’affiatamento ma in questo abbiamo la fortuna di tanti giovani, per loro è ancora più facile.
Investire seriamente nell’enoturismo e nell’attività ricettiva può essere, secondo lei, un modo per le varie aziende vitivinicole del Lazio per invertire le tendenze, sicuramente non positive, descritte nelle precedenti tre domande?
Assolutamente sì, anche perché pochi conoscono veramente il nostro territorio e l’unico modo per farlo rimanere impresso (e rimane impresso) è far venire le persone a toccarlo con mano.
“Villa Simone”, la sua azienda, è piuttosto attiva per quanto concerne l’accoglienza degli enoturisti, l’organizzazione di eventi e la partecipazione a manifestazione enologiche più o meno grandi, anche fuori dai confini regionali. E’ Sara, sua figlia, a occuparsi di questo aspetto. Quanto è importante, secondo lei, l’apporto delle nuove generazioni per questo tipo di attività e in che modo ne può giovare l’azienda in termini di notorietà, di immagine e, non da ultimo, di ritorno economico?
Penso di aver già risposto prima, sicuramente l’approccio al vino sta cambiando e per spiegarlo bene bisogna adeguarsi ai tempi.
Al netto di quelle da lei prodotte, quali sono le tipologie di vino che più preferisce? Che bottiglie acquista e dove (enoteca, grande distribuzione, online, direttamente dal produttore…)?
Cerco sempre di andare direttamente dal produttore se possibile, al massimo in enoteca.
Cosa acquisto? “Baron de L” (un Pouilly Fumé di Baron de Ladoucette, produttore della Loira; N.d.R.), Marcel Deiss (produttore dell’Alsazia; N.d.R.) e qualche vecchio Riesling Trockenbeerenauslese (una categoria della classificazione dei “vini di qualità superiore” tedeschi; N.d.R.).
Qual è il suo vitigno preferito in veste di produttore e quale invece quello in veste di appassionato di vino?
Come produttore la Malvasia del Lazio perché ci sono ampi margini di crescita. Come enologo il Pinot Nero che il vitigno più difficile al mondo.
E come consumatore?
Il riesling.
Escludendo i “soliti noti”, quali sono gli areali vitivinicoli italiani che secondo lei hanno un grande potenziale più o meno espresso, che la incuriosiscono maggiormente, che potrebbero dar vita a interessanti soprese nell’immediato futuro, che danno vita a vini di qualità pur non rientrando tra i grandi nomi e che quindi meriterebbero più considerazione?
Frascati (RM), Roma DOC (RM), Piglio (FR) e Atina (FR).
Chiudiamo questa intervista ringraziando di cuore Lorenzo Costantini per averci raccontato qualcosa sulla sua realtà, sul suo lavoro e sul suo territorio ma anche per aver condiviso con noi alcuni aspetti ed episodi strettamente personali.
Per quanto ci riguarda, contiamo di mettere online la prossima intervista tra una settimana: è quasi tutto pronto, mancano solo alcuni dettagli; ovviamente non vi sveleremo di chi si tratta ma dovrete aspettare di leggere l’articolo quando sarà online.
Nel frattempo, se ci fosse qualche protagonista del mondo dell’enologia e della vitivinicoltura italiana al quale vorreste porre delle domande, inviateci pure i vostri suggerimenti e noi proveremo a raggiungerlo per un’intervista, come fatto con Lorenzo Costantini (purché si tratti di un personaggio che approccia al suo lavoro in maniera professionale e al tempo stesso personale e soprattutto passionale ma che abbia anche una propria marcata unicità – il termine “identità” è fin troppo usato, a nostro parere, e ormai ha quasi perso il suo significato originale).
La riproduzione, anche parziale, di questo testo è vietata.
Questa intervista è stata realizzata da inCantina che ha ricevuto l’autorizzazione a pubblicarla, esattamente così come riportata nell’articolo, direttamente da Lorenzo Costantini.
Per maggiori dettagli sull’Azienda Agricola Villa Simone e su quanto Lorenzo Costantini ci ha raccontato in questa intervista:
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